Il “bail-in”. Cos’è e perché può essere devastante

Il “bail-in”. Cos’è e perché può essere devastante

Ho sempre guardato con sospetto all’uso, o meglio, dall’abuso della terminologia anglosassone in campo economico la nostra lingua è ricchissima, perché quindi ricorrere all’inglese?

La mia diffidenza nasce dal fatto che, anche se a volte gli anglicismi non sono “pericolosi”, come ad esempio l’uso ormai comune del termine “trend” al posto dell’italiano “tendenza”, spesso invece servono a nascondere cose poco piacevoli. Abbiamo compreso solo in un secondo momento, ad esempio, che l’innalzamento dello “spread” doveva essere letto come un segnale allarmante, ma all’inizio nessuno sapeva cosa fosse.

Col passare del tempo ci renderemo conto come il “Quantitative easing”, descrittoci dai nostri media nazionali un po’ come un toccasana per la nostra economia, abbia invece effetti collaterali estremamente pericolosi, seppur ad effetto ritardato, e che quindi oggi non riusciamo a percepire.

Vi voglio allora anticipare un altro termine inglese che fra non molto diventerà molto popolare e del quale è bene comprendere immediatamente l’estrema pericolosità.

Si tratta del termine “bail-in”.

Dato che “bail” significa “garanzia”, il termine “bail-in” potremmo tradurlo come “garanzia interna” e naturalmente si contrappone al “bail-out” ossia alla “garanzia esterna”.

Permettetemi a questo punto una semplificazione: si ha un “bail-out” quando una società, normalmente privata, viene in un certo modo protetta, o garantita, da un’altra società, o ente, generalmente pubblico.

Insomma senza complicarci troppo la vita con definizioni con le quali si rischia di essere poco comprensibili, riferiamoci subito all’ambito che ci interessa, ossia il comparto bancario: sappiamo tutti le grandi polemiche scoppiate un po’ a tutte le latitudini sui numerosi salvataggi di Banche private da parte degli Stati nazionali.

Quello è il classico esempio di bail-out, ossia viene evitato un fallimento di una azienda privata dall’intervento pubblico, ma il “pubblico” siamo tutti noi, ed allora il peso del salvataggio ricade sull’intera collettività, e la domanda che nasce spontanea non può che essere: è giusto tutto ciò?

E’ ovvio che la risposta, d’acchito, dovrebbe essere: NO. Ma poi occorre invece fare delle riflessioni più approfondite, perché le Banche sono sì aziende private, ma “un po’ particolari” e non possono essere messe sullo stesso piano, ad esempio, di una azienda industriale.

Occorre poi rimarcare che le legislazioni dei vari Paesi non sono univoche, se però ci riferiamo all’Italia allora dobbiamo partire dall’articolo 47 della Costituzione italiana che riportiamo integralmente per evitare qualsiasi fraintendimento:

La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito.

Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese. 

Nessuno può mettere in discussione la correttezza dimostrata dai padri costituenti, il nocciolo della questione, però, sta proprio in quel “disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito” perché ci si deve porre il quesito: e quando ciò non accade? Quando cioè non si disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito in maniera corretta, chi deve pagare?

Dato che se una Banca va sull’orlo del fallimento è perché l’Organo pubblico di vigilanza, ossia la Banca d’Italia, non ha svolto bene il suo compito di controllo, parrebbe corretto che lo Stato, quindi l’intera collettività, si faccia “garante”.

E’ meglio però essere più precisi. Coloro che detengono capitale di rischio (gli azionisti, tanto per capirci) hanno sempre “pagato”. Banalmente, se una Banca naviga in cattive acque vedrà crollare il valore delle proprie azioni. Vengono tutelati invece coloro che non detengono capitale di rischio, in pratica gli obbligazionisti ed i correntisti.

Sappiamo tutti che esiste un “fondo di garanzia” che copre fino a 100.000 euro entrambe queste categorie di investitori, ma anche qui, a mio parere andrebbe fatta una distinzione, farei rientrare nella categoria degli investitori soltanto coloro che detengono obbligazioni della Banca, mentre i correntisti li denominerei più propriamente “depositanti”.

Ebbene la normativa europea, in materia, varata nel dicembre 2013, è entrata in vigore dal primo gennaio di quest’anno e sappiamo tutti che una direttiva europea è vincolante per gli Stati membri dell’Unione.

E proprio in questi giorni nella vicina Austria se ne stanno vedendo i primi allarmanti effetti. In breve, il tentativo di salvataggio della Hypo Alpe Adria Bank aveva richiesto, ancora nel 2009, la creazione di una Bad Bank chiamata Heta. Ora, il Ministero delle Finanze austriaco ha dichiarato che non supporterà ulteriormente Heta e quindi, applicando la normativa del bail-in, saranno chiamati a rispondere delle perdite anche i creditori.

Naturalmente la gran parte dei “creditori” sono altre Banche, soprattutto tedesche, che, per tale motivo, potrebbero a loro volta entrare in una grave crisi, insomma il rischio che le perdite si amplino a macchia d’olio, è più che concreto.

E che dire poi dei “piccoli” creditori. Gli sviluppi della situazione, sotto questo punto di vista, sono ancora più preoccupanti, e forse non è esagerato dire devastanti. Si rischia infatti che alcune Banche, magari considerate meno “solide”, possano subire un deflusso della propria clientela con conseguenze facilmente immaginabili e senza dubbio non auspicabili.

Le Banche sono colossi dai piedi di argilla … tutte!!! Non conviene a nessuno renderle ancora più instabili. Attenzione quindi al “bail-in” dietro un nome apparentemente innocuo potrebbe celarsi il cerino all’interno di una polveriera.

Giancarlo Marcotti per Finanza In Chiaro